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La Keats-Shelley House: un angolo «british» a Trinità dei Monti

La mostra Byron’s Italy: An Anglo-Italian Romance, attualmente in corso alla Keats-Shelley House di Roma, per celebrare la ricorrenza del bicentenario della scomparsa di George Gordon Lord Byron (Londra, 1788 – Missolungi, 1824), icona dell’Ottocento letterario europeo, è stata prorogata sino al 19 aprile 2025. Tra i motivi d’attrazione che inducono fin dal 1909, data dell’apertura al pubblico, migliaia di visitatori soprattutto britannici, ad intraprendere un pellegrinaggio laico per visitare questa piccola casa museo ai piedi della suggestiva Scalinata di Piazza di Spagna dove il giovane poeta romantico John Keats, già affetto dalla tisi, trascorse gli ultimi giorni, vi è non solo la collezione permanente. La Keats-Shelley House è dotata di una biblioteca specializzata in letteratura romantica, costituita da più di ottomila volumi, in continuo aumento, tra cui le prime edizioni delle opere di Keats, Percy Bysshe Shelley e Lord Byron, oltre a manoscritti di Jorge Luis Borges, Oscar Wilde, Mary Shelley, Walt Whitman, William Wordsworth, Robert Browning e Joseph Severn. Ad arredo delle deliziose stanze del primo e secondo piano vi sono numerosi dipinti tra cui una seconda versione di Shelley che compone il “Prometeo liberato” alle Terme a Caracalla (1845) di Joseph Severn, sodale di Keats, e sculture e oggetti come un reliquiario contenente una ciocca di capelli di John Milton e di Elizabeth Barrett Browning, una maschera di carnevale in cera indossata da Byron a Ravenna durante il carnevale del febbraio 1820, il suo orologio da tavolo in bronzo, lo scrittoio da viaggio di Mary Shelley ed un’urna contenente una reliquia di Shelley. Ad arricchire ulteriormente tale compendio si aggiungono ora due busti ritratto raffiguranti Lord Byron che testimoniano ulteriormente il forte legame del poeta con la cultura italiana. Il primo, eseguito nel 1822 da Lorenzo Bartolini (Savignano, 1777 – Firenze, 1850), grande amico di Ingres, in terra cruda essiccata, è stato acquistato dalla Keats-Shelley Memorial Association con il sostegno di The John Murray Charitable Trust. Il secondo, realizzato in marmo nel 1840 da Ottaviano Giovannozzi, è pervenuto al museo tramite l’acquisto dalla galleria Alessandra di Castro di Roma. Alla fine delle guerre napoleoniche (1799-1815) e con la riapertura delle rotte, Lord Byron, ritenuto da Goethe “il massimo genio poetico del suo secolo” poté finalmente recarsi nella penisola rimanendovi sette anni, dal 1816 al 1823. Per i viaggiatori, letterati ed artisti inglesi, nella percezione più comune, l’Italia rappresentava una meta irresistibile e a lungo vagheggiata cui fare tappa almeno una volta nella vita. Posta ad una distanza siderale rispetto alle isole britanniche, era la regina indiscussa del vecchio continente, immaginata come una terra sempre baciata dal sole, ricca di agrumeti ed uliveti, disseminata di rovine classiche. Una terra ammantata da un’atmosfera mistica e al tempo stesso profondamente sensuale. A spingere il poeta a cercarvi rifugio era stata la rottura del disastroso matrimonio con Annabella Milbanke e le accuse di incesto, con la sorellastra Augusta, e di omosessualità. Nell’aprile 1819 Byron incontrò a Venezia, da lui definita “l’isola più verde della mia fantasia”, colei destinata a divenire il suo ultimo grande amore, Teresa Gamba Ghiselli, una giovane appassionata di Dante, residente con il marito, il conte Alessandro Guiccioli, a Ravenna. Determinato a seguirla, Byron si stabilì nella città per due anni presso il palazzo di famiglia, a pochi metri dalla tomba del Poeta, giungendo alla pienezza della propria espressione lirica, attraverso la composizione di Don Juan, Marino Faliero, Sardanapalus, The Two Foscari, The Prophecy of Dante, nonché all’esperienza della passione civile e politica. Risale a questo periodo, infatti, grazie al padre e fratello di Teresa, Ruggero e Pietro Gamba, la frequentazione dei circoli carbonari durante la quale cominciò a coltivare quegli ideali di libertà morale che lo avrebbero indotto a simpatizzare e a condividere la lotta per l’indipendenza dell’Italia dal giogo austriaco e della Grecia dai turchi. Fu nel gennaio del 1822, durante il soggiorno a Pisa condiviso con l’amata Teresa, che Lorenzo Bartolini realizzò un busto di entrambi ritratto dal vero. A questi, nel processo creativo sarebbero seguiti i calchi in gesso da cui sarebbero state tratte copie in marmo.

Lorenzo Bartolini, «George Gordon VI Duca di Byron»

Tuttavia, sebbene Teresa avesse definito il ritratto dell’amico come “l’opera più somigliante a Byron”, quest’ultimo lo scartò sulla base di un’incisione che vide prima della redazione finale. Come afferma, infatti, Ettore Spalletti “questi rimasero a lungo nello studio di Bartolini poiché sappiamo che alcuni anni più tardi, certamente dopo la morte del poeta avvenuta in Grecia nel 1824, vennero visti dalla contessa Gamba Guiccioli nel corso di una sua visita allo studio dello scultore; successivamente, secondo modalità per ora non note, vennero in possesso del banchiere di Byron a Genova, Charles Barry, e dopo la sua morte, per volere degli eredi, entrambi vennero trasferiti in Sud Africa e poi collocati nella South African Library di Città del Capo” (L. Bartolini 1978, pp. 74-75). E ancora: “Dai due bellissimi modelli in gesso, entrambi conservati nella Gipsoteca Bartolini della Galleria dell’Accademia a Firenze, sono derivate molte versioni e repliche per le quali vedi, da ultimo, le schede di Maddalena De Luca Savelli e di Silvestra Bietoletti, rispettivamente per i busti in marmo di Byron e della Guiccioli Gamba” (in L. Bartolini 2011, pp. 226-230). Lord Byron non posò invece per lo scultore di corte Ottaviano Giovannozzi (Settignano, 1767 – Firenze, 1853). Il suo busto ritratto è la seconda versione, caratterizzata da lievi differenze, di un esemplare in marmo da lui realizzato nel 1823, sedici anni dopo la scomparsa del poeta, attualmente conservato presso lo Smithsonian Museum di Washington. Una significativa testimonianza della capillare diffusione del culto postumo del poeta e, al contempo, della grande eredità della sua immagine divenuta un potente veicolo per alimentarne la fama. All’indomani della morte che lo consacrerà come un eroe destinato ad incarnare l’aspirazione a quella perduta grecità, culla di ogni civiltà, le raffigurazioni a lui ispirate si moltiplicarono dando origine ad una vera e propria Byronmania. In Italia tra i lavori dedicati a questo immortale martire della libertà, nuotatore provetto nonché amatore licenzioso, si ricordano dipinti tra cui la grande tela Lord Byron sulla sponda del mare ellenico (1850, Comune di Pavia – Musei Civici e Castello) di Giacomo Trecourt, miniature come quella su pergamena eseguita nel 1826 da Giambattista Gigola per il Corsaro e persino medaglie con il profilo circondato da una corona di alloro vedi quella incisa nel bronzo dal torinese Giuseppe Galeazzi (Firenze, Museo Nazionale del Bargello). Tale processo di idealizzazione aveva avuto inizio ancora vivente il poeta, come testimonia oltre al busto di Bartolini, quelli realizzati da Bertel Thorvaldsen (1817) e la tela, anch’essa conservata alla Keats-Shelley House, dedicatagli dal ritrattista britannico Richard Westall nel 1913. Non a caso quest’ultimo era stato assunto da John Murray, editore di Byron, per illustrare con un suo ritratto nel frontespizio, l’edizione del 1812 di uno dei suoi componimenti poetici più noti, Childe Harold’s Pilgrimage. Fu da allora che creazione ed immagine divennero inseparabili ed il corpus sterminato delle incisioni contribuì notevolmente a farne conoscere l’opera e a far crescere la sua reputazione di poeta e personaggio pubblico dalla vita scandalosa. I due busti ritratto di Bartolini e di Giovannozzi, oltre ad arricchire il nucleo di sculture presenti nel corpus eterogeneo della raccolta permanente, attestano il tentativo di superare l’eterea astrazione dei canoni neoclassici a favore di una progressiva rappresentazione naturalistica del soggetto. Al tempo stesso, costituiscono la prova tangibile della feconda ed articolata interazione fra le arti figurative e la poesia di Byron.

 

di Elisabetta Matteucci da Il Giornale dell’Arte, 13 aprile 2025


A casa di miss Merrick si studiava il Punto Lamporecchio

La Villa di Papiano a Lamporecchio (Pistoia) è entrata a far parte dell’Associazione nazionale Case della memoria. Immersa nel verde degli olivi del Montalbano e conosciuta anche come la “Villa dell’Americana”, è sottoposta a tutela della Sovrintendenza dei Beni Culturali Architettonici di Firenze.
Visitarla significa intraprendere un viaggio per conoscere nell’intimità la filantropa e benefattrice Laura Towne Merrick (Philadelpia, 1842 – Firenze, 1926), la cui memoria si conserva ancora negli abitanti di Lamporecchio. Il complesso, di epoca rinascimentale, costruito su un edificio medioevale preesistente, ha ospitato per alcune centinaia di anni la famiglia Torrigiani. Nella seconda metà dell’Ottocento fu acquistato da una nobildonna, Miss Merrick che, affascinata dalle bellezze naturali e artistiche, ai primi anni Ottanta decise di trasferirsi definitivamente in Italia. Sesta dei sette figli di uno dei più influenti imprenditori e benefattori di Philadelphia, Samuel Vaughan Merrick, magnate industriale nel campo della siderurgia, nel 1869 intraprese un grand tour in Europa, officiando quella sorta di rito culturale iniziatico praticato fin dal XVII secolo dagli esponenti dell’upper class nord europea.

Dopo aver abitato a Firenze, nel 1889, dietro suggerimento dell’amico Emilio Torrigiani, decise di comprare un antico casale a Papiano, in provincia di Pistoia facendone la propria residenza estiva. Annessi all’edificio erano il terreno, le stalle, le rimesse, i magazzini, le cantine ed una cappella consacrata ai lati del giardino, oltre a vigneti e al terreno boschivo. Torrigiani, che le aveva fatto conoscere quei luoghi così cari alla propria infanzia, l’aiutò ad apportare modifiche ed interventi strutturali all’intera tenuta come i loggiati in stile neorinascimentale, il giardino all’italiana con siepi simmetriche, vasche, fontane e fioriere e ancora il restauro della limonaia, degli spazi di servizio, delle cantine, del frantoio e della piccola chiesa, ancora oggi consacrata.

La Villa fu dotata di un impianto di illuminazione a gas – dato il disturbo oculare di cui Miss Merrick soffriva, ogni ambiente era provvisto di luci soffuse e sontuosi lampadari di Murano – e collegata tramite un acquedotto a una sorgente sì da dotarla di un impianto idrico con acqua corrente che garantiva una costante irrigazione alla casa, agli annessi e al giardino. Al primo piano si trovava l’appartamento di Laura, costituito da sale e salottini arredato in stile eclettico con suppellettili in legno scuro, tappeti, cineserie, tendaggi, drappeggi in damasco e cimeli. Uno stile diffuso tra gli anglo-americani che, proprio nella seconda metà dell’Ottocento, costituivano un’importante colonia sulle pendici fiorentine e non solo. Qua Miss Merrick poteva dedicarsi agli ozi prediletti come la fotografia, l’antiquariato e il collezionismo. Ancora oggi, come se ogni cosa fosse rimasta intatta, è possibile ammirare nei diversi ambienti i mobili, i tappeti, i quadri e gli effetti personali – i vestiti, i ricami e la biancheria intima – così come lei stessa li aveva collocati.

Al nutrito numero di persone di servizio si aggiungevano i contadini che dalle terre della tenuta ricavavano vino e olio evo. In quel fazzoletto di terra, Miss Merrick aveva costruito il suo piccolo feudo dove, lontano da occhi indiscreti, sfarzo e clamori, l’amore per la natura aveva soppiantato l’attrazione per salotti e circoli culturali e la fama di benefattrice si era imposta su quella della nobile ed aristocratica ereditiera.

Una veduta del salottino di Villa Papiano

La sua biografia è, dunque, indissolubilmente legata alla storia del territorio pistoiese dove, all’epoca del suo arrivo, era molto diffusa la tradizione del ricamo. Già segretaria e membro del comitato nella scuola di ricamo di Philadelphia, favorendo le abilità artigianali delle ragazze e disponendo di sufficienti risorse economiche, ai primi del ‘900 Miss Merrick istituì con piglio manageriale la “Scuola dei merletti e Lavoro Femminile” il cui obiettivo era d’introdurre un’industria sussidiaria per le donne sprovviste di un impiego fisso. All’interno della scuola, oltre ai punti di ricamo tipici del Pistoiese, veniva insegnato un nuovo punto, nato proprio all’interno di quella piccola istituzione: il Punto Lamporecchio. Oltre a finanziare il restauro della chiesa di Santo Stefano, Miss Merrick creò alcune associazioni di carattere sociale ed educativo come la “Società Operaia di Mutuo Soccorso”, volta a sostenere i disagi dei lavoratori dovuti a malattie, invalidità, vecchiaia e motivi bellici. Le sue elargizioni finalizzate a sussidiarne i componenti, permisero il costituirsi di un capitale sociale. Anche le famiglie più indigenti nonché la locale “Società Filarmonica”, nata agli inizi dell’Ottocento, usufruirono delle sue generose donazioni e finanziamenti. Alla morte di Miss Merrick, non essendoci discendenti diretti, l’eredità della tenuta di Papiano passò al nipote John Vaughan Merrick che, a sua volta, nel 1955 la vendette a Mauro Venturini, padre dell’attuale proprietario grazie al quale l’intero complesso si è aperto ad una fruizione esterna.

di Elisabetta Matteucci da Il Giornale dell’Arte, 28 marzo 2025


L’intima poesia che si cela dietro il pionieristico linguaggio di Fattori

Fervono i preparativi per l’inaugurazione della mostra volta a celebrare il bicentenario della nascita di Giovanni Fattori, definito da Lorenzo Viani “il primo naturalista che abbia dato una singolare fisionomia alla pittura italiana”. La Fondazione Cassa di Risparmio di Piacenza e Vigevano, promotrice dell’iniziativa, ha messo a disposizione gli eleganti saloni di Palazzo XNL che, sapientemente ristrutturati dall’architetto Michele De Lucchi, ospiteranno, a pochi passi dalla Pinacoteca Ricci Oddi, l’importante rassegna in corso dal 29 marzo al 29 giugno 2025. Curata da un gruppo di specialisti dell’Ottocento, profondi conoscitori della vasta produzione di Fattori come Fernando Mazzocca e Giorgio Marini, l’esposizione grazie all’ausilio di importanti collaborazioni instaurate con l’Istituto Matteucci e l’Istituto Centrale per la Grafica ed al prestito di prestigiose istituzioni museali di tutta Italia, intende documentare la modernità del linguaggio artistico del maestro indiscusso della macchia. L’intera sua produzione, capace di dominare indistintamente i diversi generi dai soggetti risorgimentali ai paesaggi, dai ritratti agli animali, rivela la peculiare maestria nell’esprimere l’umanità e le più autentiche emozioni insite nei diversi temi affrontati. Inoltre, questa spiccata e completa padronanza, restituisce la fisionomia a tutto tondo di un pittore che sia nell’introspezione psicologica del ritratto, sia nell’interpretazione della realtà, esprime una condizione esistenziale di perfetto equilibrio tra dimensione intima e universale. Il percorso espositivo, attraverso una straordinaria selezione di quasi un centinaio di dipinti posti in un illuminante confronto con la produzione grafica, vuole restituire il suo sguardo innamorato e, al contempo, disincantato sull’esistenza, rivelandone l’intima poesia che, nonostante tutto, dietro di lei si cela.

Accorpati per nuclei tematici, i numerosi dipinti sono presentati in una sequenza cronologica suddivisa in sezioni che offre al visitatore la possibilità di seguire l’intera evoluzione creativa della pittura fattoriana: I soldati del ’59. La nascita della macchia; L’epica delle grandi battaglie; L’ordinario quotidiano della vita militare; I ritratti. L’altra faccia dell’anima; En plein air tra la costa livornese e Castiglioncello; Intime impressioni di luce e Fuga in Maremma alla ricerca dell’autenticità.

Giovanni fattori rilascio perizie stime valutazioni su dipinti italiani dell'800

Partendo dalle prime ricerche sulla macchia, la documentazione degli eventi bellici passerà dalle piccole impressioni alla raffigurazione solenne ed epica delle grandi battaglie quando, approssimandosi alle soglie del Novecento, determinato a cogliere anche i momenti più intimi della vita di guarnigione, Fattori avrà visto crollare tutti gli ideali risorgimentali. Ad arrecare conforto, tra il decennio Sessanta e Settanta, alla travagliata perdita della prima moglie, sarà la parentesi aurea di Castiglioncello, luogo rigenerante per l’anima e stimolante per l’estro creativo. Qui, in un clima di intensa condivisione con i colleghi artisti, vedranno la luce alcuni degli esempi più emblematici del nuovo formato longitudinale, espressamente coniato per restituire un’ampia visione panoramica. Il contatto con la terra di Maremma, instaurato agli inizi degli anni Ottanta grazie all’ospitalità della famiglia del principe Tommaso Corsini, gli darà nuovo vigore. Attratto dalla vitalità primigenia sprigionata dalla simbiosi fra uomo e animale, continuerà lo studio mai interrotto della figura, trovando proprio nei butteri così come nei cavalli e nei possenti bovi i protagonisti della propria visione panteista, esponenti di quel poema sconfinato di libertà che è la natura.

La portata innovatrice di quella visione troverà conferma nella rilettura critica che dell’opera di Fattori darà il novecento; una vera e propria rinascita stilistico-iconografica promossa dagli eredi spirituali, in primis Oscar Ghiglia che già nella monografia del 1913, dando spazio soprattutto alle sintetiche tavolette degli anni sessanta, vi individuerà l’essenza e l’attualità del suo messaggio.

Il catalogo, che avrà l’obiettivo di imporsi come vero e proprio strumento di lavoro, sarà pubblicato da Dario Cimorelli Editore ed ospiterà, oltre ai saggi dei curatori, contributi di Vincenzo Farinella e di Matteo Pavesi, un’antologia critica, i cappelli introduttivi alla sezioni e gli apparati elaborata da Stefano Bosi.

di Elisabetta Matteucci da Il Giornale dell’Arte, 19 marzo 2025


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