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La Keats-Shelley House: un angolo «british» a Trinità dei Monti

La mostra Byron’s Italy: An Anglo-Italian Romance, attualmente in corso alla Keats-Shelley House di Roma, per celebrare la ricorrenza del bicentenario della scomparsa di George Gordon Lord Byron (Londra, 1788 – Missolungi, 1824), icona dell’Ottocento letterario europeo, è stata prorogata sino al 19 aprile 2025. Tra i motivi d’attrazione che inducono fin dal 1909, data dell’apertura al pubblico, migliaia di visitatori soprattutto britannici, ad intraprendere un pellegrinaggio laico per visitare questa piccola casa museo ai piedi della suggestiva Scalinata di Piazza di Spagna dove il giovane poeta romantico John Keats, già affetto dalla tisi, trascorse gli ultimi giorni, vi è non solo la collezione permanente. La Keats-Shelley House è dotata di una biblioteca specializzata in letteratura romantica, costituita da più di ottomila volumi, in continuo aumento, tra cui le prime edizioni delle opere di Keats, Percy Bysshe Shelley e Lord Byron, oltre a manoscritti di Jorge Luis Borges, Oscar Wilde, Mary Shelley, Walt Whitman, William Wordsworth, Robert Browning e Joseph Severn. Ad arredo delle deliziose stanze del primo e secondo piano vi sono numerosi dipinti tra cui una seconda versione di Shelley che compone il “Prometeo liberato” alle Terme a Caracalla (1845) di Joseph Severn, sodale di Keats, e sculture e oggetti come un reliquiario contenente una ciocca di capelli di John Milton e di Elizabeth Barrett Browning, una maschera di carnevale in cera indossata da Byron a Ravenna durante il carnevale del febbraio 1820, il suo orologio da tavolo in bronzo, lo scrittoio da viaggio di Mary Shelley ed un’urna contenente una reliquia di Shelley. Ad arricchire ulteriormente tale compendio si aggiungono ora due busti ritratto raffiguranti Lord Byron che testimoniano ulteriormente il forte legame del poeta con la cultura italiana. Il primo, eseguito nel 1822 da Lorenzo Bartolini (Savignano, 1777 – Firenze, 1850), grande amico di Ingres, in terra cruda essiccata, è stato acquistato dalla Keats-Shelley Memorial Association con il sostegno di The John Murray Charitable Trust. Il secondo, realizzato in marmo nel 1840 da Ottaviano Giovannozzi, è pervenuto al museo tramite l’acquisto dalla galleria Alessandra di Castro di Roma. Alla fine delle guerre napoleoniche (1799-1815) e con la riapertura delle rotte, Lord Byron, ritenuto da Goethe “il massimo genio poetico del suo secolo” poté finalmente recarsi nella penisola rimanendovi sette anni, dal 1816 al 1823. Per i viaggiatori, letterati ed artisti inglesi, nella percezione più comune, l’Italia rappresentava una meta irresistibile e a lungo vagheggiata cui fare tappa almeno una volta nella vita. Posta ad una distanza siderale rispetto alle isole britanniche, era la regina indiscussa del vecchio continente, immaginata come una terra sempre baciata dal sole, ricca di agrumeti ed uliveti, disseminata di rovine classiche. Una terra ammantata da un’atmosfera mistica e al tempo stesso profondamente sensuale. A spingere il poeta a cercarvi rifugio era stata la rottura del disastroso matrimonio con Annabella Milbanke e le accuse di incesto, con la sorellastra Augusta, e di omosessualità. Nell’aprile 1819 Byron incontrò a Venezia, da lui definita “l’isola più verde della mia fantasia”, colei destinata a divenire il suo ultimo grande amore, Teresa Gamba Ghiselli, una giovane appassionata di Dante, residente con il marito, il conte Alessandro Guiccioli, a Ravenna. Determinato a seguirla, Byron si stabilì nella città per due anni presso il palazzo di famiglia, a pochi metri dalla tomba del Poeta, giungendo alla pienezza della propria espressione lirica, attraverso la composizione di Don Juan, Marino Faliero, Sardanapalus, The Two Foscari, The Prophecy of Dante, nonché all’esperienza della passione civile e politica. Risale a questo periodo, infatti, grazie al padre e fratello di Teresa, Ruggero e Pietro Gamba, la frequentazione dei circoli carbonari durante la quale cominciò a coltivare quegli ideali di libertà morale che lo avrebbero indotto a simpatizzare e a condividere la lotta per l’indipendenza dell’Italia dal giogo austriaco e della Grecia dai turchi. Fu nel gennaio del 1822, durante il soggiorno a Pisa condiviso con l’amata Teresa, che Lorenzo Bartolini realizzò un busto di entrambi ritratto dal vero. A questi, nel processo creativo sarebbero seguiti i calchi in gesso da cui sarebbero state tratte copie in marmo.

Lorenzo Bartolini, «George Gordon VI Duca di Byron»

Tuttavia, sebbene Teresa avesse definito il ritratto dell’amico come “l’opera più somigliante a Byron”, quest’ultimo lo scartò sulla base di un’incisione che vide prima della redazione finale. Come afferma, infatti, Ettore Spalletti “questi rimasero a lungo nello studio di Bartolini poiché sappiamo che alcuni anni più tardi, certamente dopo la morte del poeta avvenuta in Grecia nel 1824, vennero visti dalla contessa Gamba Guiccioli nel corso di una sua visita allo studio dello scultore; successivamente, secondo modalità per ora non note, vennero in possesso del banchiere di Byron a Genova, Charles Barry, e dopo la sua morte, per volere degli eredi, entrambi vennero trasferiti in Sud Africa e poi collocati nella South African Library di Città del Capo” (L. Bartolini 1978, pp. 74-75). E ancora: “Dai due bellissimi modelli in gesso, entrambi conservati nella Gipsoteca Bartolini della Galleria dell’Accademia a Firenze, sono derivate molte versioni e repliche per le quali vedi, da ultimo, le schede di Maddalena De Luca Savelli e di Silvestra Bietoletti, rispettivamente per i busti in marmo di Byron e della Guiccioli Gamba” (in L. Bartolini 2011, pp. 226-230). Lord Byron non posò invece per lo scultore di corte Ottaviano Giovannozzi (Settignano, 1767 – Firenze, 1853). Il suo busto ritratto è la seconda versione, caratterizzata da lievi differenze, di un esemplare in marmo da lui realizzato nel 1823, sedici anni dopo la scomparsa del poeta, attualmente conservato presso lo Smithsonian Museum di Washington. Una significativa testimonianza della capillare diffusione del culto postumo del poeta e, al contempo, della grande eredità della sua immagine divenuta un potente veicolo per alimentarne la fama. All’indomani della morte che lo consacrerà come un eroe destinato ad incarnare l’aspirazione a quella perduta grecità, culla di ogni civiltà, le raffigurazioni a lui ispirate si moltiplicarono dando origine ad una vera e propria Byronmania. In Italia tra i lavori dedicati a questo immortale martire della libertà, nuotatore provetto nonché amatore licenzioso, si ricordano dipinti tra cui la grande tela Lord Byron sulla sponda del mare ellenico (1850, Comune di Pavia – Musei Civici e Castello) di Giacomo Trecourt, miniature come quella su pergamena eseguita nel 1826 da Giambattista Gigola per il Corsaro e persino medaglie con il profilo circondato da una corona di alloro vedi quella incisa nel bronzo dal torinese Giuseppe Galeazzi (Firenze, Museo Nazionale del Bargello). Tale processo di idealizzazione aveva avuto inizio ancora vivente il poeta, come testimonia oltre al busto di Bartolini, quelli realizzati da Bertel Thorvaldsen (1817) e la tela, anch’essa conservata alla Keats-Shelley House, dedicatagli dal ritrattista britannico Richard Westall nel 1913. Non a caso quest’ultimo era stato assunto da John Murray, editore di Byron, per illustrare con un suo ritratto nel frontespizio, l’edizione del 1812 di uno dei suoi componimenti poetici più noti, Childe Harold’s Pilgrimage. Fu da allora che creazione ed immagine divennero inseparabili ed il corpus sterminato delle incisioni contribuì notevolmente a farne conoscere l’opera e a far crescere la sua reputazione di poeta e personaggio pubblico dalla vita scandalosa. I due busti ritratto di Bartolini e di Giovannozzi, oltre ad arricchire il nucleo di sculture presenti nel corpus eterogeneo della raccolta permanente, attestano il tentativo di superare l’eterea astrazione dei canoni neoclassici a favore di una progressiva rappresentazione naturalistica del soggetto. Al tempo stesso, costituiscono la prova tangibile della feconda ed articolata interazione fra le arti figurative e la poesia di Byron.

 

di Elisabetta Matteucci da Il Giornale dell’Arte, 13 aprile 2025


A casa di miss Merrick si studiava il Punto Lamporecchio

La Villa di Papiano a Lamporecchio (Pistoia) è entrata a far parte dell’Associazione nazionale Case della memoria. Immersa nel verde degli olivi del Montalbano e conosciuta anche come la “Villa dell’Americana”, è sottoposta a tutela della Sovrintendenza dei Beni Culturali Architettonici di Firenze.
Visitarla significa intraprendere un viaggio per conoscere nell’intimità la filantropa e benefattrice Laura Towne Merrick (Philadelpia, 1842 – Firenze, 1926), la cui memoria si conserva ancora negli abitanti di Lamporecchio. Il complesso, di epoca rinascimentale, costruito su un edificio medioevale preesistente, ha ospitato per alcune centinaia di anni la famiglia Torrigiani. Nella seconda metà dell’Ottocento fu acquistato da una nobildonna, Miss Merrick che, affascinata dalle bellezze naturali e artistiche, ai primi anni Ottanta decise di trasferirsi definitivamente in Italia. Sesta dei sette figli di uno dei più influenti imprenditori e benefattori di Philadelphia, Samuel Vaughan Merrick, magnate industriale nel campo della siderurgia, nel 1869 intraprese un grand tour in Europa, officiando quella sorta di rito culturale iniziatico praticato fin dal XVII secolo dagli esponenti dell’upper class nord europea.

Dopo aver abitato a Firenze, nel 1889, dietro suggerimento dell’amico Emilio Torrigiani, decise di comprare un antico casale a Papiano, in provincia di Pistoia facendone la propria residenza estiva. Annessi all’edificio erano il terreno, le stalle, le rimesse, i magazzini, le cantine ed una cappella consacrata ai lati del giardino, oltre a vigneti e al terreno boschivo. Torrigiani, che le aveva fatto conoscere quei luoghi così cari alla propria infanzia, l’aiutò ad apportare modifiche ed interventi strutturali all’intera tenuta come i loggiati in stile neorinascimentale, il giardino all’italiana con siepi simmetriche, vasche, fontane e fioriere e ancora il restauro della limonaia, degli spazi di servizio, delle cantine, del frantoio e della piccola chiesa, ancora oggi consacrata.

La Villa fu dotata di un impianto di illuminazione a gas – dato il disturbo oculare di cui Miss Merrick soffriva, ogni ambiente era provvisto di luci soffuse e sontuosi lampadari di Murano – e collegata tramite un acquedotto a una sorgente sì da dotarla di un impianto idrico con acqua corrente che garantiva una costante irrigazione alla casa, agli annessi e al giardino. Al primo piano si trovava l’appartamento di Laura, costituito da sale e salottini arredato in stile eclettico con suppellettili in legno scuro, tappeti, cineserie, tendaggi, drappeggi in damasco e cimeli. Uno stile diffuso tra gli anglo-americani che, proprio nella seconda metà dell’Ottocento, costituivano un’importante colonia sulle pendici fiorentine e non solo. Qua Miss Merrick poteva dedicarsi agli ozi prediletti come la fotografia, l’antiquariato e il collezionismo. Ancora oggi, come se ogni cosa fosse rimasta intatta, è possibile ammirare nei diversi ambienti i mobili, i tappeti, i quadri e gli effetti personali – i vestiti, i ricami e la biancheria intima – così come lei stessa li aveva collocati.

Al nutrito numero di persone di servizio si aggiungevano i contadini che dalle terre della tenuta ricavavano vino e olio evo. In quel fazzoletto di terra, Miss Merrick aveva costruito il suo piccolo feudo dove, lontano da occhi indiscreti, sfarzo e clamori, l’amore per la natura aveva soppiantato l’attrazione per salotti e circoli culturali e la fama di benefattrice si era imposta su quella della nobile ed aristocratica ereditiera.

Una veduta del salottino di Villa Papiano

La sua biografia è, dunque, indissolubilmente legata alla storia del territorio pistoiese dove, all’epoca del suo arrivo, era molto diffusa la tradizione del ricamo. Già segretaria e membro del comitato nella scuola di ricamo di Philadelphia, favorendo le abilità artigianali delle ragazze e disponendo di sufficienti risorse economiche, ai primi del ‘900 Miss Merrick istituì con piglio manageriale la “Scuola dei merletti e Lavoro Femminile” il cui obiettivo era d’introdurre un’industria sussidiaria per le donne sprovviste di un impiego fisso. All’interno della scuola, oltre ai punti di ricamo tipici del Pistoiese, veniva insegnato un nuovo punto, nato proprio all’interno di quella piccola istituzione: il Punto Lamporecchio. Oltre a finanziare il restauro della chiesa di Santo Stefano, Miss Merrick creò alcune associazioni di carattere sociale ed educativo come la “Società Operaia di Mutuo Soccorso”, volta a sostenere i disagi dei lavoratori dovuti a malattie, invalidità, vecchiaia e motivi bellici. Le sue elargizioni finalizzate a sussidiarne i componenti, permisero il costituirsi di un capitale sociale. Anche le famiglie più indigenti nonché la locale “Società Filarmonica”, nata agli inizi dell’Ottocento, usufruirono delle sue generose donazioni e finanziamenti. Alla morte di Miss Merrick, non essendoci discendenti diretti, l’eredità della tenuta di Papiano passò al nipote John Vaughan Merrick che, a sua volta, nel 1955 la vendette a Mauro Venturini, padre dell’attuale proprietario grazie al quale l’intero complesso si è aperto ad una fruizione esterna.

di Elisabetta Matteucci da Il Giornale dell’Arte, 28 marzo 2025


L’intima poesia che si cela dietro il pionieristico linguaggio di Fattori

Fervono i preparativi per l’inaugurazione della mostra volta a celebrare il bicentenario della nascita di Giovanni Fattori, definito da Lorenzo Viani “il primo naturalista che abbia dato una singolare fisionomia alla pittura italiana”. La Fondazione Cassa di Risparmio di Piacenza e Vigevano, promotrice dell’iniziativa, ha messo a disposizione gli eleganti saloni di Palazzo XNL che, sapientemente ristrutturati dall’architetto Michele De Lucchi, ospiteranno, a pochi passi dalla Pinacoteca Ricci Oddi, l’importante rassegna in corso dal 29 marzo al 29 giugno 2025. Curata da un gruppo di specialisti dell’Ottocento, profondi conoscitori della vasta produzione di Fattori come Fernando Mazzocca e Giorgio Marini, l’esposizione grazie all’ausilio di importanti collaborazioni instaurate con l’Istituto Matteucci e l’Istituto Centrale per la Grafica ed al prestito di prestigiose istituzioni museali di tutta Italia, intende documentare la modernità del linguaggio artistico del maestro indiscusso della macchia. L’intera sua produzione, capace di dominare indistintamente i diversi generi dai soggetti risorgimentali ai paesaggi, dai ritratti agli animali, rivela la peculiare maestria nell’esprimere l’umanità e le più autentiche emozioni insite nei diversi temi affrontati. Inoltre, questa spiccata e completa padronanza, restituisce la fisionomia a tutto tondo di un pittore che sia nell’introspezione psicologica del ritratto, sia nell’interpretazione della realtà, esprime una condizione esistenziale di perfetto equilibrio tra dimensione intima e universale. Il percorso espositivo, attraverso una straordinaria selezione di quasi un centinaio di dipinti posti in un illuminante confronto con la produzione grafica, vuole restituire il suo sguardo innamorato e, al contempo, disincantato sull’esistenza, rivelandone l’intima poesia che, nonostante tutto, dietro di lei si cela.

Accorpati per nuclei tematici, i numerosi dipinti sono presentati in una sequenza cronologica suddivisa in sezioni che offre al visitatore la possibilità di seguire l’intera evoluzione creativa della pittura fattoriana: I soldati del ’59. La nascita della macchia; L’epica delle grandi battaglie; L’ordinario quotidiano della vita militare; I ritratti. L’altra faccia dell’anima; En plein air tra la costa livornese e Castiglioncello; Intime impressioni di luce e Fuga in Maremma alla ricerca dell’autenticità.

Giovanni Fattori, «Marina con barche a Livorno», 1885 ca (particolare)

Partendo dalle prime ricerche sulla macchia, la documentazione degli eventi bellici passerà dalle piccole impressioni alla raffigurazione solenne ed epica delle grandi battaglie quando, approssimandosi alle soglie del Novecento, determinato a cogliere anche i momenti più intimi della vita di guarnigione, Fattori avrà visto crollare tutti gli ideali risorgimentali. Ad arrecare conforto, tra il decennio Sessanta e Settanta, alla travagliata perdita della prima moglie, sarà la parentesi aurea di Castiglioncello, luogo rigenerante per l’anima e stimolante per l’estro creativo. Qui, in un clima di intensa condivisione con i colleghi artisti, vedranno la luce alcuni degli esempi più emblematici del nuovo formato longitudinale, espressamente coniato per restituire un’ampia visione panoramica. Il contatto con la terra di Maremma, instaurato agli inizi degli anni Ottanta grazie all’ospitalità della famiglia del principe Tommaso Corsini, gli darà nuovo vigore. Attratto dalla vitalità primigenia sprigionata dalla simbiosi fra uomo e animale, continuerà lo studio mai interrotto della figura, trovando proprio nei butteri così come nei cavalli e nei possenti bovi i protagonisti della propria visione panteista, esponenti di quel poema sconfinato di libertà che è la natura.

La portata innovatrice di quella visione troverà conferma nella rilettura critica che dell’opera di Fattori darà il novecento; una vera e propria rinascita stilistico-iconografica promossa dagli eredi spirituali, in primis Oscar Ghiglia che già nella monografia del 1913, dando spazio soprattutto alle sintetiche tavolette degli anni sessanta, vi individuerà l’essenza e l’attualità del suo messaggio.

Il catalogo, che avrà l’obiettivo di imporsi come vero e proprio strumento di lavoro, sarà pubblicato da Dario Cimorelli Editore ed ospiterà, oltre ai saggi dei curatori, contributi di Vincenzo Farinella e di Matteo Pavesi, un’antologia critica, i cappelli introduttivi alla sezioni e gli apparati elaborata da Stefano Bosi.

di Elisabetta Matteucci da Il Giornale dell’Arte, 19 marzo 2025


Il macchiaiolo metafisico

di Antonio Rocca da Robinson, 18 maggio 2025

Piacenza celebra il bicentenario della nascita di Giovanni Fattori (1825-1908) con la mostra “Il genio dei Macchiaioli” presentata da XNL Arte a Piacenza.
A cura di Fernando Mazzocca, Elisabetta Matteucci e Giorgio Marini, l’esposizione propone 100 dipinti e 70 disegni e incisioni. In rapporto ai colleghi Silvestro Lega o Telemaco Signorini, Fattori si distinse per una tensione astratizzante. Nulla a che vedere con quella che sarebbe stata l’astrazione delle avanguardie, nutrita di aneliti teosofici: il livornese avanza sottraendo dettagli e sensazioni per sprofondare nel reale. C’è in Fattori una fedeltà alla tradizione e alla terra, che lo vincola alla scabra realtà di Giotto e di Masaccio. Nell’icona della mostra, In vedetta (1872), la luce d’ascendenza pierfrancescana sembra aver smarrito le solari certezze che l’animavano.
Si direbbe quasi che il toscano abbia trasfigurato Gustave Courbet nel nitore di Piero e che in quella luminosità materica rimbombi un’assenza. Si apriva la strada per la Metafisica, di Giorgio de Chirico e Carlo Carrà, autori che amarono Fattori. Carrà lo poneva tra gli antichi e Paul Cézanne, mentre de Chirico, in funzione antimpressionista, ne prediligeva le battaglie austere e pervase di cupa malinconia.
Nelle opere di soggetto militare coesistono una profonda empatia per i soldati e una solida distanza dalla retorica bellica. Fu una scelta che Fattori sostenne contro il gusto corrente e che pagò sul piano commerciale. Spesso la battaglia è introdotta da un cadavere, spesso lo sguardo è rivolto ai margini del conflitto: si fa l’appello, si contano i morti, si leggono le lettere da casa, si raccolgono i caduti… in guerra perdono tutti e allora Fattori non fa distinzione tra vincitori e vinti. La solidarietà con gli sconfitti ricorda La resa di Breda (1635) di Diego Velásquez ed echi dell’andaluso riappaiono anche quando si osserva la sezione dedicata ai ritratti. Butteri e signori meritano la medesima attenzione, ciascuno è degno di fronte allo sguardo del pittore. Tra i ritratti spicca I fidanzati (1861): Luciano Bernardini ha riconosciuto Argia Buongiovanni e Alfredo Carducci, lei esibisce un polsino tricolore e lui ha il pizzo e i baffi di Vittorio Emanuele II. Come in un romanzo scritto male, in questa piccola Italia tutto torna: Argia è la cugina di Fattori, Valfredo (sarebbe stato docente di Mussolini) è un fratello minore di Giosuè. Nella sala dei paesaggi il riferimento al poeta de Il bove (1872) è d’obbligo. Solenni come monumenti, i bovi maremmani sono il correlato delle creature carducciane. Eppure qualcosa di essenziale sfugge al confronto. E’ che arriviamo a Fattori camminando a ritroso, transitando per il primo centenario , che fu anche l’anno di Ossi di seppia (1925). E’ possibile che qualcuno tra i dipinti di Piacenza abbia ispirato montale, quando scriveva di muri scalcinati e cavalli stramazzati. Nei meriggi immortalati dal pittore sembra davvero di ascoltare schiocchi di merli e scricchi di cicale. Non è l’impressione di un momento, ma, lo aveva rivelato Argan, il palesarsi dell’universale nel particolare. Perché la morte di Dio non cancella la sete di assoluto, ma muta lo statuto del miracolo, che si veste di triste meraviglia. La chiave di In vedetta è lo sterco del cavallo, che spezza la campitura crema del suolo opposta all’azzurro del cielo. Bastano poche pennellate brune per richiamare la realtà al corpo. Proveniente da collezione privata, questa piccola tela è contemporanea di Impression, soleil levant (1872) e rimarca tutta la distanza tra macchiaioli e impressionisti. Cavalieri e cavalli sono immersi in una quiete assoluta e vacilla il confine tra pittura militare e di paesaggio. Peraltro due temi che per numero (più di 200 per tipologia)significativamente si equivalgono… Allora poco importa che in queste campagne afose siano presenti soldati o contadini, cavalli o buoi; un sentimento di profonda unità lega la terra riarsa al mare e agli uomini.

Giovanni Fattori, stima perizie expertise dipinti di Giovanni fattori
Giovanni Fattori In vedetta

Sovente la linea dell’orizzonte si colloca al centro del quadro, indizio di un equilibrio tra immanente e trascendente, e sulla scena si alternano figure senza volto. I berretti, le tende d’accampamento e gli abiti sono incunaboli di un’astrazione, che punta dritta al varco in cui mormora il segreto dell’essere. Alle celebrazioni partecipa la Galleria Ricci Oddi. Barbara Cinelli interroga l’eredità di Fattori e sono illuminanti i puntuali confronti con Giorgio Morandi. Dall’accostamento delle incisioni dei due maestri scaturisce una consonanza dolce e triste, come se pizzicassero la medesima corda poetica. Ne sorge un accordo elegiaco non italiano, ma italico. Bisognava spendere una vita lontana dal rumore delle città per avvertire, e tradurre in immagine, una vibrazione tanto lieve da apparentarsi al silenzio.
Realizzata in collaborazione con l’Istituto Centrale per la Grafica, l’Istituto Matteucci, il Comune di Livorno e la Fondazione Livorno, la mostra sarà visitabile fino al 29 giugno.


Le terapeutiche evasioni di Sir Frederic Leighton

Frederic Leighton, «Bay of Cádiz, Moonlight», 1866

 

di Elisabetta Matteucci, da Il giornale dell'Arte, 18 febbraio 2025

 

Visitabile sino al 27 aprile«Leighton and Landscapes: Impressions from Nature», curata da Hannah Lund, riunisce per la prima volta a Leighton House gli schizzi ad olio realizzati dall’artista durante i viaggi effettuati dal 1856 al 1896, anno della scomparsa.

La rassegna, punto di arrivo dell’attività di ricerca e degli sforzi del museo per ripristinare le collezioni del pittore di Scarborough (1830-96), permette di ammirare gli esemplari conservati nella casa studio progettata da George Aitchison e molti altri recuperati da collezioni private documentando la produzione meno nota di una delle figure più autorevoli e influenti dell’arte britannica del XIX secolo.

Estremamente riservato al punto da apparire snob, Leighton appare in questa mostra nell’inedita veste di pittore grand tourista. Oltre ai soggetti storici, biblici e mitologici secondo la migliore tradizione preraffaellita, tale produzione praticata all’estero, in pieno disimpegno e intimità col motivo, è stata sempre poco conosciuta poiché destinata, per desiderio dello stesso artista, all’arredo della casa studio. Leighton non vendette mai i suoi paesaggi e solo in tarda età prese in considerazione l’idea di esporli, organizzando due mostre alla Royal Society of British Artists nel 1894 e nel 1895. Tale nucleo fornisce notizie su periodi poco noti della vita privata e rappresenta un resoconto dei luoghi visitati. Alcuni di essi hanno inoltre svolto la funzione di modello per dipinti di maggiori dimensioni realizzati in studio anche molti anni dopo.

Il percorso, suddiviso in otto sezioni tematiche, mira a illustrare le caratteristiche della sua pittura di paesaggio, dall’utilizzo delle tecniche pittoriche sino all’interesse per l’architettura. A catturare l’attenzione del pittore erano soggetti apparentemente marginali quali una collina, una roccia, un albero o, più semplicemente, un panorama. Ma ad attrarre il suo occhio erano soprattutto i giochi di luce, i suoi effetti nelle diverse condizioni atmosferiche sia, ad esempio, sulle mura di un assolato riad tangerino o durante una tempesta nel mare d’Irlanda.

Osservando la spontaneità di queste 65 impressioni en plein air dal carattere così sperimentale, emerge l’affinità con i paesaggi di Corot o dei Macchiaioli. Molti dipinti tornano a Leighton House dopo centoventi anni, tra cui il notturno Bay of Cádiz, Moonlight (1866) e Haystacks (Study of Brighton Downs) di George Frederic Watts (1882). Regalatogli dallo stesso pittore, è stato acquisito lo scorso anno dal museo grazie al generoso sostegno dell’Arts Council England/V&A Purchase Grant Fund e degli Amici di Leighton House. Una parte della rassegna è dedicata a Capri, l’isola del cuore, visitata per la prima volta negli anni Cinquanta quando l’artista, lavorando «dal giorno al tramonto per una o due settimane», realizzò il celebre Studio di un albero di limoni. A corredo della mostra vi è una serie di paesaggi realizzati da altri artisti tra cui John ConstableGeorge Frederic WattsGiovanni Costa e Marie Cazin.

Sin dall’infanzia Frederic Leighton dedicò al viaggio una parte considerevole della vita. All’epoca dell’adolescenza aveva già visitato FirenzeRoma e molte altre città europee. Dopo i soggiorni nella capitale tra il 1853 e il 1855, frequentando a Firenze le lezioni di Giuseppe Bezzuoli e Benedetto Servolini, avrebbe visto la luce il primo capolavoro Cimabue’s Celebrated Madonna is Carried through the Streets of Florence, acquistato alla Royal Academy dalla regina Vittoria. Fu proprio la precoce consuetudine con le creazioni a favorirgli il sorgere di una vocazione. Nel 1857 visitò per la prima volta l’Algeria. Anche all’indomani del trasferimento a Londra, determinato a dimostrare alla famiglia di essere divenuto un «eminente» pittore dalla reputazione internazionale e dalle frequentazioni altolocate persino con i membri della casa reale, Leighton non interruppe questa consuetudine ritenuta indispensabile per il benessere psicofisico e la sua ispirazione.

Quei viaggi, struggenti evasioni in un altrove così seducente, erano una sorta di esperienza terapeutica. Le sei-otto settimane all’anno, trascorse da fine agosto a ottobre, gli permettevano di fuggire alle pressanti richieste di commissioni e agli incarichi assunti alla Royal Academy. Neppure all’indomani della sua elezione a presidente (1878) vi rinunciò. Gli itinerari spaziavano dalle Highlands scozzesi al deserto del Sahara. È noto che Leighton amasse viaggiare in solitudine ma in realtà condivise spesso i soggiorni italiani con Giovanni Costa, figura destinata a ricoprire un ruolo chiave nella vicenda macchiaiola.

Tra i due si instaurò un rapporto di profonda stima e amicizia tanto che Leighton, durante le trasferte di «Nino» a Londra, lo ospitò spesso a casa propria. Apprezzando quel suo modo di fondere tradizione e modernità, cominciò a raccoglierne i dipinti per la propria collezione in cui sarebbero confluiti quadri antichi, di Corot, George Mason e della Scuola Etrusca, di Albert Moore, John Everett Millais, George Frederic Watts, John Singer Sargent e Lawrence Alma-Tadema. Un compendio mirabile tra cui i suoi 184 schizzi ad olio di paesaggi e soggetti architettonici disperso nel 1896 da Christie, Manson & Woods. Successivamente alla visita in Algeria nacque l’attrazione per i manufatti del mondo islamico che cominciò ad accumulare tra il 1860-70 dando inizio a una vera e propria raccolta costituita da piastrelle, vasi e stoviglie in ceramica, tessuti e tappeti di varie epoche e località. Un nucleo alimentato sia durante i viaggi, sia tramite l’aiuto di mercanti londinesi e parigini. La passione per siti d’interesse artistico e architettonico gli permise di accumularne una conoscenza così capillare da rappresentare una fonte d’ispirazione per l’attività pittorica e la progettazione dell’eclettico apparato decorativo della propria abitazione. Nel 1867 navigò lungo il Danubio da Vienna a Istanbul. Attraversando la Turchia, passando per Smirne, esplorò la costa dell’Asia Minore per poi tornare via Atene a Venezia. L’anno successivo Leighton si recò in Egitto dove, a bordo dello yacht a vapore messogli a disposizione dal Principe di Galles, risalì il corso del Nilo realizzando numerose vedute. Nel 1873 fu la volta della Siria, dopo Beirut si spinse via terra fino a Damasco dove raccolse piastrelle e tessuti con l’aiuto di un missionario, il reverendo William Wright, dell’esploratore diplomatico Sir Richard Burton e di Caspar Purdon Clarke, futuro direttore del Victoria and Albert Museum. Risale al 1882 un altro viaggio in Turchia e in Egitto. Anche nel 1895, quando la salute cominciava a vacillare, Leighton non desistette. Dopo il Marocco, a quasi quarant’anni dalla prima visita, tornò ad Algeri. Morì per insufficienza cardiaca il 25 gennaio 1896 a pochi mesi dal rientro a casa e dall’assegnazione della baronia di Stretton. Le sue ultime parole furono: «Il mio amore per l’Accademia».

Al funerale, celebrato in St. Paul per espressa volontà della regina Vittoria, parteciparono migliaia di persone. Del resto, la stessa sovrana, visitando già nel 1869 la casa studio aveva avuto modo di apprezzare «una quantità di schizzi... appena fatti da lui sul Nilo, molto interessanti». Inoltre, assisteva agli esclusivi concerti tenuti in primavera a Holland Park. Sabato 30 marzo 1889 nel proprio diario aveva annotato: «Sir Frederick Leighton ha tenuto la sua festa musicale annuale mercoledì pomeriggio, ed è stata più deliziosa di quanto si possa descrivere. Lo studio è una perfetta sala da musica, ed era decorato con disegni e quadri di grande bellezza. Una fila di rododendri, sotto alte palme ondeggianti, nelle rientranze della finestra, attraverso le quali il sole al tramonto gettava luci dorate, ha aggiunto bellezza alla scena. Piatti, Strauss e Joachim hanno suonato, Santley ha cantato […]. La compagnia era molto interessante, tutto il mondo musicale e artistico era presente: Millais, Poynter, Burne-Jones, Tadema, Richmond, Browning e molti altri».


Giovanna Bacci di Capaci riporta in auge Kienerk

Giorgio Kienerk La lettura (part.)

 

di Elisabetta Matteucci, da Il Giornale dell'Arte, 13 gennaio 2025

 

Nella veste di conservatrice del museo dedicato all’artista fiorentino, pittore, scultore e grafico geniale, la gallerista aspira a una proiezione nazionale della piccola realtà amata dai visitatori e molto attiva.

Giovanna Bacci di Capaci conosce il futuro marito Andrea Conti durante la frequentazione delle lezioni all’ateneo pisano. A favorirne l’unione sarà la volontà di realizzare un progetto di vita insieme, allietato dalla nascita di tre figlie, nonché il nutrimento di una viscerale passione per l’arte concretizzatasi nell’apertura a Livorno, alla fine degli anni Settanta, dello Studio d’Arte Andrea Conti poi divenuto Studio d’Arte dell’Ottocento. Ai due coniugi, in sintonia su scelte di vita e d’arte, si unirà di lì a breve il fratello e cognato Filippo Bacci di Capaci, fresco di studi universitari e determinato a portare il proprio contributo. Va letta in quest’ottica l’iniziativa da lui intrapresa di inaugurare nel 1993 l’apertura a Lucca di una seconda galleria, la Bacci di Capaci, affiliata a quella livornese. Nel corso degli anni i tre familiari, lavorando in due città diverse ma a stretto contatto, riusciranno a conquistare una posizione di rilievo nel panorama mercantile della cultura figurativa italiana del XIX e XX secolo. Nel 1999, dopo la prematura scomparsa del marito, con lodevole coraggio, affiancata dal fratello, Giovanna prende in mano la conduzione dell’attività seguendone gli sviluppi per circa un decennio. Risale al 2014 la fusione delle due precedenti realtà da cui nascerà una nuova creatura denominata 800/900 Art Studio.

Attualmente Giovanna Bacci di Capaci ricopre il ruolo di conservatrice del Museo Giorgio Kienerk (1869-1948) a Fauglia, antico borgo del contado pisano. Inaugurato nel 2008 all’interno delle ex carceri ottocentesche ristrutturate e adibite a sede espositiva grazie ai contributi ministeriali, esso si è costituito per via testamentaria dalla figlia Vittoria (1920-2013) che, ancora in vita, decise di destinare all’Amministrazione comunale un lascito comprendente gli archivi e la raccolta di opere di grafica, pittura e scultura ereditate dal padre. Insieme alla casa di Poggio alla Farnia, il Museo Kienerk costituisce una tappa significativa per la ricostruzione di un appassionato itinerario biografico sul pittore toscano.

Giovanna Bacci di Capaci, può fare un bilancio sulla gestione del museo in questi anni?
Il Museo Kienerk è una piccola ma preziosa realtà culturale che arricchisce Fauglia e il territorio delle colline pisane che hanno una lunga storia di convivenza con l’arte. Pensiamo ai fratelli Gioli che ricevevano gli amici pittori a Fauglia e ai Tommasi che soggiornavano a Crespina. È un museo monografico ma inquadra il panorama dell’arte a cavallo dei due secoli. Giorgio Kienerk è infatti artista eclettico: scultore, pittore, grafico geniale, con le sue innovative Maske. Allievo di Cecioni e di Signorini, parte dalla lezione macchiaiola per aprirsi al ’900: sperimenta il Divisionismo, partecipa al Simbolismo e all’Art Nouveau, inventa capilettera e alfabeti, realizza immagini pubblicitarie. Nonostante gli entusiastici commenti dei visitatori siamo ancora poco conosciuti a livello nazionale. Non abbiamo le aperture al pubblico sufficienti per rientrare nel novero dei musei di rilevanza regionale; riuscirvi sarebbe decisivo per la nostra crescita e visibilità.

Vittoria Kienerk, donna colta, arguta e carismatica, oltre a essere un’apprezzata storica dell’arte, docente e autrice di libri per ragazzi, è stata la custode della memoria paterna. È soprattutto grazie al suo spirito d’iniziativa e al suo entusiasmo che Fauglia può vantare un proprio museo. Ce ne racconta la nascita?
Vittoria ha riflettuto a lungo sulla donazione, donando ai faugliesi le opere del padre ha optato per un museo periferico. Ottenuti i finanziamenti, tutto si è svolto velocemente. Con Vittoria in testa nel ruolo di caposquadra ed Eugenia Querci ne ho seguito l’evoluzione, passo dopo passo. È nostro orgoglio aver realizzato la struttura e il catalogo senza gravare sull’Amministrazione. Attualmente sto lavorando per illuminare la figura di Vittoria, come donatrice, donna dalla mente curiosissima, dalla memoria di ferro e dalla fantasia inesauribile. Il bookshop si è arricchito di due volumi: La casa e il tempo dedicato a Vittoria e alla casa di Poggio alla Farnia da Eugenia Querci (autrice anche della monografia Giorgio Kienerk. 1869-1948, pubblicata da Allemandi nel 2001, Ndr) e la ristampa di Spazi d’inverno, un delizioso libretto contenente le memorie di Vittoria sull’infanzia trascorsa a Pavia.

 

Quali sono i progetti sul futuro, le aspirazioni nonché le sfide per mantenersi al passo con i tempi?
Siamo molto attivi localmente, presenti sui social e pieni d’idee, ma dobbiamo riuscire a ottenere i contributi della Regione per realizzare eventi salienti e mostre collaterali in grado di richiamare un bel numero di visitatori. Vogliamo continuare la serie dei «Quaderni Kienerk», iniziata con la mostra di Emilio Mazzoni Zarini, seguita da quella dei ritratti di Kienerk. Nel cassetto è già pronta una mostra su Silvio Bicchi, artista legato al territorio pisano-livornese.


A Bologna un affresco dei Savini, dinastia di pittori felsinei

Alfredo Savini, Candore

 

 

di Elisabetta Matteucci, da Il Giornale dell'Arte, 10 gennaio 2025

 

Un’antologica ripercorre in quasi cento opere la vicenda umana e artistica dei Savini, famiglia di pittori felsinei

 

Al Museo Ottocento Bologna è in corso fino al 3 marzo 2025 una retrospettiva curata da Ilaria Chia e Francesca Sinigaglia dedicata a una dinastia di pittori felsinei: i Savini. Il progetto espositivo, allineato alle precedenti indagini monografiche condotte dalle due studiose sulle figure di Carlotta Gargalli e Mario de Maria, rientra nel lodevole programma di recupero di personalità ingiustamente dimenticate attive a Bologna nel XIX secolo. Il costituirsi di gruppi familiari in cui, parallelamente ai vincoli di parentela, era trasmessa l’esperienza acquisita in una professione artistica, ha contraddistinto anche la storia dell’arte italiana dell’Ottocento. In molti Stati preunitari gli esempi si sprecano. Come non ricordare nel Lombardo-Veneto i Caliari, i Canella e i Ciardi? E ancora gli Appiani, gli Ademollo, gli Inganni, gli Induno e i Borsa. Nel Granducato di Toscana i Markò, i De Tivoli e i Signorini. E nel Regno delle Due Sicilie i Fergola, i Carelli, i Gigante e i Palizzi.

A Bologna, antica capitale delle Province Unite, ancor prima di Antonio e Giovanni Boldini, si distingue la famiglia Savini che nella persona del bisnonno Giacomo (Bologna, 1768-1842), del padre Alfonso (Bologna, 1838-1908) e del figlio Alfredo (Bologna, 1868-Verona, 1924) dominerà la scena artistica cittadina dal periodo neoclassico sino al secondo decennio del Novecento. La mostra presenta quasi cento dipinti tra capolavori e inediti provenienti da collezioni private e prestigiose istituzioni museali quali, tra le altre, la Galleria d’Arte Moderna «Achille Forti» di Verona. Lo stesso Museo Ottocento Bologna, presso cui si conservano opere saviniane, ha finanziato e coordinato i restauri di quelle conservate nei depositi del MAMbo, della Pinacoteca Nazionale di Bologna e del Museo Revoltella di Trieste. I discendenti con estrema generosità hanno messo a disposizione dipinti, documenti e fotografie dei tre pittori bolognesi. L’ambizione di presentare per la prima volta un’antologica contenente un focus dedicato a ciascun artista si è rivelata vincente.

Oltre a favorire la comprensione dell’affascinante affresco entro cui si è dipanata la loro vicenda umana e artistica, tale scelta è riuscita a farne emergere le singole peculiarità, permettendo al visitatore di seguire la narrazione dei diversi svolgimenti biografici correlati alla disamina degli indirizzi di stile. Analizzando le delicate vedute («Mollezza») di Giacomo che, dopo la formazione alla locale Accademia di Belle Arti e l’alunnato presso Vincenzo Martinelli diverrà uno dei paesaggisti più richiesti soprattutto per la decorazione d’interni di «stanze a paese», si comprende come nell’Italia centrale tale cultura figurativa sia stata condizionata da un tipo d’iconografia di ascendenza storico-letteraria. Raffigurazioni idealizzate, rispondenti a precise indicazioni di ordine compositivo e stilistico, destinate al mercato dei «souvenirs de voyage».

Alla metà del secolo esordisce il nipote Alfonso ottenendo positivi riscontri nell’esecuzione di soggetti storici connotati da caratteri romantici quali «Mario a Cartagine» e, tra gli altri, un soggetto tratto dalla Vita Nuova di Dante, «Io mi sedea in parte...» (1863), in cui emerge l’uso sapiente di colori pastosi e la resa di atmosfere languide, opulente, pervase di un sentore crepuscolare. Successivamente, l’artista orienterà la propria ricerca verso i soggetti neopompeiani e scene di genere d’impronta sentimentale come, ad esempio, «Nydia e Glauco», «Ultimi giorni di Pompei» e «La serenata», molto apprezzati dal mercante Adolphe Goupil. Avviato giovanissimo alla pittura, il figlio Alfredo prosegue la ricerca sulla figura e sul paesaggio che pratica attraverso rigorosi studi dal vero. I tempi stanno però mutando, complici le numerose correnti che, in antitesi al pensiero positivista, rivendicano una dimensione più spiritualistica dell’esistenza. Superata l’oggettiva descrizione della natura, il paesaggio diviene riflesso delle inquietudini e malinconie dell’animo («La raccolta delle albicocche») espresse attraverso una progressiva idealizzazione della forma, una semplificazione cromatica e una meticolosa grafia ideale per esprimere valori simbolici e mistici come in «Auxilium ex alto», «Pace. Tomba tra i cipressi» e «Candore».


pointeau pittore macchiaiolo francese

Pointeau, macchiaiolo francese

di Elisabetta Matteucci, da Il Giornale dell'arte,  20 dicembre 2024

 

Al Museo Ghelli di San Casciano la mostra del pittore transalpino è un’occasione per ripercorrere le ricerche e gli interessi artistici dello storico dell’arte Carlo Del Bravo, che fu il primo a riscoprirne i disegni e gli olii.

 

 

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La saga Manet: una dynasty artistica degna di Beautiful

Le déjeuner dans l'atelier

 

di Elisabetta Matteucci da Il Giornale dell'Arte, 16 dicembre 2024

La «famiglia allargata» del precursore dell’Impressionismo è al centro di una mostra all’Isabella Stewart Gardner Museum. Fu Berenson a volere che nel museo bostoniano il ritratto della madre dell’artista fosse esposto tra Pollaiolo e Degas.

«Manet. A Model Family», in corso fino al 20 gennaio all’Isabella Stewart Gardner Museum-Hostetter Gallery di Boston, dedicata da Diana Seave Greenwald a uno dei precursori dell’Impressionismo, è la prima mostra incentrata sui «portrait family» all’interno dell’opera di Édouard Manet (1832-83). I diversi contributi in catalogo presentano l’esito di analisi tecniche, accurate ricerche d’archivio e d’indagini biografiche condotte attorno alla famiglia del pittore per studiarne i molteplici risvolti all’interno del contesto borghese di fine Ottocento.

La rassegna, che riunisce importanti prestiti dall’Europa e dagli Stati Uniti, tra cui lo splendido ritratto della madre del pittore, «Madame Auguste Manet» (1866 ca) dello stesso Gardner Museum, tenta di analizzare il pittore francese e il suo entourage da una prospettiva molto intima e personale qual è quella delle complesse relazioni familiari riuscendo così a presentarlo al pubblico in una veste più umana. Quale ruolo ebbe il côté familiare all’interno della sua produzione? E come si districava lui stesso nel labirinto dei delicatissimi rapporti domestici?

Ogni artista ha le sue muse e per Édouard, considerato universalmente come il padre della modernità, una di queste era la famiglia; una famiglia che oggi non esiteremmo a definire «allargata» e con una gestione estremamente complessa soprattutto alla luce degli standard morali allora vigenti. Il pittore, infatti, nel 1863 aveva sposato la presunta amante del padre, Suzanne Leenhoff, un’olandese di Delft emigrata in Francia che anni prima, nel 1849, era stata assunta in casa Manet come insegnante di pianoforte. Una talentuosa pianista definita da Baudelaire nel 1863, all’indomani delle nozze con il pittore, «bella, molto gentile e una grande artista». Suo figlio Léon-Édouard Koëlla (1852-1927, raffigurato in «Le déjeuner dans l’atelier») meglio conosciuto come Léon, nato fuori dal matrimonio, era di padre ignoto. Poteva essere figlio di Édouard, di suo padre Auguste o di un altro uomo. In pubblico era presentato come il fratello minore di Suzanne, mentre in privato lui stesso si rivolgeva al pittore e alla moglie come ai propri padrino e madrina. Dopo il matrimonio da questi ultimi non venne riconosciuto; con ogni probabilità era figlio di Auguste e, dunque, figliastro e fratellastro dell’artista.

Ma non è tutto. La madre del pittore, Eugénie-Désirée Fournier (1811-85), una matriarca dalla tempra d’acciaio che sovrintendeva al corretto svolgimento della vita sociale e finanziaria di quella complicata famiglia borghese era, neanche a dirlo, in pessimi rapporti con i parenti acquisiti. Tuttavia, se la gestione quotidiana era a dir poco complessa soprattutto per il mantenimento di equilibri interpersonali profondamente precari, la famiglia Manet ebbe una vita serena. Contrariamente alle non proprio brillanti premesse e all’assioma tolstoiano («tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo»), i diversi protagonisti di quel nucleo così particolare ed eterogeneo convissero in un clima aperto e cordiale animato da una costante armonia. La loro era una famiglia felice, realmente felice in quel suo modo unico e complicato. Non solo. I diversi componenti rappresentarono per Manet una costante fonte d’ispirazione creativa.

Sia la cognata Berthe Morisot (1841-95), moglie del fratello Eugène, amica intima e collega, sia Léon che Suzanne o Eugénie furono i modelli prediletti dall’artista. Le loro eleganti figure, sapientemente delineate in pennellate audaci e rivoluzionarie, recanti sul volto la fissità dell’espressione a metà tra compiacenza e severità, furono tra i soggetti da lui più frequentemente interpretati. Nei loro confronti la mostra rappresenta, dunque, una sorta di riconoscimento atteso da tempo per il ruolo preminente ricoperto sia nella vita che nell’opera del pittore. Fu grazie all’impegno dei suoi discendenti, infatti, fonte di sostegno emotivo e, di riflesso, finanziario che l’opera del pittore non fu dimenticata.

Relativamente al dipinto «Madame Auguste Manet», Isabella Stewart Gardner era da tempo interessata ad acquisire un ritratto di Manet e, una volta segnalatole dal suo consulente Bernard Berenson, nel 1910, a sette anni dall’apertura al pubblico del suo museo, ne entrò in possesso. Lo stesso Berenson, impressionato dalla seduzione di quel nero così rilucente lo definì «una cosa colossale» e suggerì alla mecenate di appenderlo accanto ai ritratti del Pollaiolo e di Degas per creare una «trinità di grandi dipinti che sono anche tremendi studi di carattere». Non a caso lo stesso Diego Martelli, forse l’unico critico italiano dell’Ottocento di statura europea, assimilata progressivamente la portata rivoluzionaria del linguaggio manettiano, consistente anche nella peculiarità di rendere il ritratto una sorta di alter ego fisico e morale del soggetto, lo collocò «fra gli ultimi grandi maestri del passato e sulla porta dei grandi maestri dell’avvenire».

 


Tallone, o il ritratto come specchio dell’essere

"La Ciociara", Cesare tallone (part.)

 

di Elisabetta Matteucci, da Il Giornale dell'Arte, 28 novembre 2024

L’artista savonese, sin dagli anni Settanta dell’Ottocento, adottò un genere pittorico che ora ci consente di osservare l’evoluzione dell’universo femminile a cavallo tra i due secoli. L’allestimento al Museo Villa Bassi Rathgeb attinge alle proprie collezioni.

 

La mostra «Donna, Musa, Artista. Ritratti di Cesare Tallone tra Otto e Novecento», in corso fino al 12 gennaio 2025 al Museo Villa Bassi Rathgeb, rappresenta il risultato di un lavoro di studio e di approfondimento condotto da Raffaele CampionSilvia CapponiElena Lissoni Barbara Maria Savy sulla collezione permanente del museo e, specificatamente, sul nucleo di dipinti del pittore savonese (1853-1919).

Roberto Bassi Rathgeb, studioso e collezionista d’arte di origine bergamasca ma fortemente legato al territorio aponense, destinò, infatti, nel 1972 al Comune di Abano Terme la propria raccolta costituita da dipinti di Andrea PrevitaliGiovanni CarianiMoretto da BresciaGiovan Battista MoroniGiacomo Ceruti oltre a disegni, incisioni, reperti archeologici e mobili d’antiquariato. La mostra offre l’opportunità di approfondire uno dei temi, il ritratto, maggiormente praticati da Tallone fin dagli anni Settanta e mai abbandonato nell’intero svolgersi della sua carriera di maestro e di artista. Una testimonianza della sua considerazione per tale genere quale specchio dell’essere, a cui il suo nome è rimasto indissolubilmente associato come attesta il pregevole nucleo riunito in questa rassegna; una vivacissima ed elegante teoria attraverso la quale è possibile osservare da vicino l’evoluzione dell’eterogeneo universo femminile nella società italiana tra fine Ottocento e inizio Novecento.

Il filone del ritratto è contestualizzato, nelle prime sale, all’interno di una cornice domestica nella quale prendono vita i personaggi del côté familiare di Tallone, come i figli Guido e Irene, la sorella Linda Maria e il consorte Guglielmo Davoglio, le cui effigi, finalmente riunite per la prima volta, furono realizzate nel 1887 in occasione del fidanzamento. Tra le figure di maggiore impatto si distingue quella a grandezza naturale della moglie, la poetessa Eleonora Tango, agghindata in un costume da ciociara. Un topos figurativo quest’ultimo che, grazie all’incontrastata fortuna iconografica riscossa a partire dal XVII secolo in tutta Europa, aveva valicato i confini di origine per essere assurto ad archetipo della donna italica.

Verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento, date le continue richieste da parte di una committenza anche straniera, moltissimi artisti come Silvestro LegaVito d’AnconaMosè Bianchi, i fratelli IndunoEleuterio Pagliano o Plinio Nomellini vi si cimentarono riuscendo a non scivolare in esiti di scontata retorica nazionale. Nella felice interpretazione di Tallone è difficile non intravedere la matrice delle future peculiarità del giovane Giuseppe Pellizza da Volpedo, uno degli allievi più dotati durante il brillante magistero del ritrattista all’Accademia Carrara di Bergamo (1885-90). Un’interpretazione che per il senso plastico, il vigore realistico nonché la potenza espressiva ricorda altresì i grandi ritratti di Antonio Mancini, il pittore romano con cui Tallone fu in contatto durante un lungo soggiorno nella capitale tra il 1883 e il 1885.

Seguendo il percorso nei saloni della villa, si assiste a un panorama ampio illustrante il dialogo esclusivo instauratosi fra una società fin de siècle desiderosa di essere celebrata e un pittore, ritrattista della regina Margherita e fondatore di una delle prime scuole femminili di pittura, capace di esaudirne l’inclinazione autoreferenziale. Accanto alle figure dell’entourage privato, compaiono esponenti della borghesia più emancipata, come la «Signora con fiori alla cintura» di Giovanni Boldini, identificabile anche nella fotografia della giornalista Emilia Cardona Boldini ritratta nello studio del marito, e attrici glamour divenute icone di stile come Lina Cavalieri o Emma Gramatica raffigurata, quest’ultima, da Lino Selvatico o la divina Lyda Borelli, nel bellissimo gesso realizzato da Pietro Canonica. E ancora manifesti, raffinati manufatti quali borsette châtelaine o ventagli brisé.

Un variegato compendio che permette di comprendere quanto il ritratto in Italia, come anche al di fuori dell’Europa, complice la diffusione del mezzo fotografico, divenga a cavallo tra Otto e Novecento il genere pittorico maggiormente praticato proprio per la sua valenza di codice sociale. Del resto la moglie Eleonora Tango, intima amica di Matilde Serao, e la sorella Virginia Tango Piatti scultrice, pianista, prolifica giornalista e traduttrice, erano entrambe in stretti rapporti con Sibilla Aleramo scrittrice e giornalista nota per la sua attenzione alla condizione femminile italiana tra Ottocento e Novecento, e proprio alle relazioni importanti e al lavoro intellettuale di queste donne colte della famiglia Tallone viene dedicata un’intera sezione. La mostra è accompagnata da un catalogo (Cimorelli) introdotto dai saggi dei quattro curatori e da apparati storico critici di sicuro interesse per la ricostruzione e la rivalutazione dell’attività dell’artista.


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